Tutto intorno a me è blu.

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Tutto intorno a me è blu cobalto. Io ho sempre vissuto tra i tanti blu che colorano le case del mio paese. Sono orgogliosamente un amazigh delle montagne del Rif. La mia medina azul si chiama Chefchaouen, un luogo magico che non ha una storia sola, ma tanti diversissimi passati, dipende da chi ascolti, da chi te li racconta:

  • è il luogo di partenza dei berberi verso l’Andalusia e poi le Americhe, per poi essere la città del loro ritorno a casa dopo mille vicissitudini;
  • la città dalle corna di capra chaouen… e se guardo le montagne che circondano Chefchaouen questa storia è vera;
  • per gli ebrei è stato il rifugio dalle innumerevoli persecuzioni, dipinta di blu cobalto per ricordare il loro dio;
  • per gli arabi è la città sacra vietata agli stranieri, il luogo inviolabile della grande moschea.

Io so che il paese è antichissimo, ma la storia ufficiale dice che è stato ristrutturato e ingrandito nella seconda metà del 1400 dell’era volgare da ebrei e arabi che decisero di rifugiarsi quassù scappando da una delle tante persecuzioni dell’inquisizione spagnola.

Comunque un giorno questa popolazione decise di dipingere i muri delle case di un blu cobalto bellissimo, sicuramente per ricordare il mare da dove proveniva.

Gli altri paesi di montagna sono tristi, grigi, quasi si confondono con la terra arida di questi rilievi.

Chefchaouen è un paese di mare costruito, isolato, tra le montagne del Rif.

I miei parenti hanno sempre vissuto della coltivazione di marijuana perché in questa zona la coltivazione è legale, qui produciamo l’ottanta per cento della cannabis fumata in Europa. Le nostre coltivazioni e l’indotto producono quasi dieci miliardi di euro l’anno e danno da mangiare a quasi un milione di persone. Nessuno è così pazzo (politico, religioso o governante che sia) da criticare la nostra autonomia nella coltivazione e nella lavorazione della cannabis. Siamo una cittadina molto ricca che ha il quaranta per cento mondiale della coltivazione di marijuana e così non abbiamo mai insistito troppo sul business del turismo.

Da noi arrivano da tutto il mondo solo fotografi per riprendere il blu cobalto delle nostre case e gente che si vuole fare le canne.

Siamo fuori da ogni circuito turistico del Marocco e io ne sono felice. Non sopporterei avere tutto il giorno intorno a me della gente che non conosco. Persone che si approprierebbero del mio spazio per qualche ora in cambio di una bevuta al bar o di uno spuntino in un ristorante.

Già ai fotografi che incontro di continuo per i vicoli e che chiedono di ritrarmi in una foto io rispondo alzando il dito medio. Ma a questi ci sono oramai abituato, fanno parte del mio quotidiano da quando sono bambino. Chissà in quante fotografie sono stato ritratto prima che iniziassi a mandarli a quel paese!

Discorso diverso è per i ragazzi che vengono a Chefchaouen per fumare canne sino allo stordimento. Questi sono generalmente simpatici, semplici, non disturbano… in pratica, invece di essere dei turisti in cerca di manufatti etnici da portare a casa, comprano hashish e se le consumano in loco.

A diciotto anni ho deciso che lavorare in agricoltura con mio padre non poteva essere il mio futuro, io volevo vivere tra il blu cobalto della città vecchia. Così ho ristrutturato una casa di famiglia e l’ho trasformata in un bellissimo bar tradizionale con annesso déhor nel cortile interno della casa. L’ho voluto realizzare in modo tale che fosse evidente il suo essere un locale tipico, frequentato dalla popolazione e, proprio per questa caratterizzazione, è diventato invece una attrattiva per i fotografi e i ragazzi fumati. Durante il giorno si servono caffè, tè e bevande, ma alla sera si trasforma in una specie di privé dove sono i cocktail l’attrazione, oltre la possibilità di farsi le canne liberamente.

Mi è sempre piaciuto fare cocktail, ne conosco almeno una cinquantina, ma il mio divertimento è sperimentarne di nuovi. Certo non poteva essere il lavoro più semplice da fare in un paese musulmano, ma a Chefchaouen mi è permesso, l’importante è la riservatezza e gli accordi con la polizia locale. Da diversi anni io insegno ai miei tre dipendenti il lavoro, controllo che tutto sia perfetto, ma non servo e non sto alla cassa. Quando ho voglia mi cimento in qualche miscuglio di alcool e gusti e poi lo faccio assaggiare ai ragazzi che lavorano al bar. La caratteristica dei miei cocktail è l’inserimento di foglie di marijuana al posto delle erbe normalmente usate.

I clienti apprezzano. Siamo a Chefchaouen, la capitale dell’erba e quindi tutto risulta “giusto”.

Per preparare il Mojito, invece di usare le foglie di hierba buena cubana o la menta dei paesi occidentali, io uso le foglie giovani di marijuana. Le pesto leggermente amalgamandole con lo zucchero di canna e il lime, poi il ghiaccio, aggiungo del vero Rum bianco cubano e il seltz. Molto importante è il bicchiere: deve essere un tumbler alto. Garantisco che l’effetto finale è straordinario. Tutti lo chiedono e i tre barman ne preparano a decine ogni sera.

Il mio piacere è sedermi su una poltroncina con, appoggiato sul tavolino, il mio cocktail e guardare ciò che avviene, sentire le discussioni, ma io non interagisco mai con i clienti, non mi interessa. Io guardo, osservo chi entra, dove si siede, come si muove, cosa ordina, cosa lo attrae del locale e degli altri uomini che sono seduti ai tavoli. È un gioco che faccio oramai da anni e quindi capisco immediatamente il timido, quello abituato a stare in un bar e a starci da solo, quello che cerca ma non sa cosa, quello determinato in cosa vuole, quello affascinato da ciò che lo circonda, quello indifferente all’ambiente, quello che vuole restare solo e quello che immediatamente cerca di socializzare. Io ho inquadrato chiunque dopo circa quindici minuti che è entrato. Osservo molto anche la fisicità dei ragazzi e degli uomini che entrano nel bar. Ogni sera constato che sono davvero pochi quelli belli, cioè quelli che hanno un bel fisico ma anche un bel viso. Normalmente nessuna delle due componenti è accettabile, in qualche caso una è interessante ma l’altra inguardabile, raramente succede la perfezione. Gli uomini occidentali difficilmente sono belli. Le donne hanno una fisicità che non m’interessa o perlomeno dovrei vederla per constatarne le caratteristiche, cosa che da noi praticamente impossibile, devo solo immaginare. Ma perché immaginare quando ci sono gli occhi per constatare? E poi non dedico mai le mie attenzioni alla gente che abita qui, ma solo ai turisti. E di donne praticamente non ne arrivano quasi mai e quelle poche che vengono a Chefchaouen sono quasi sempre accompagnate da maschietti.

Comunque le mie serate le dedico a osservare chi entra al bar e cerco di capire chi, tra quelli fisicamente accettabili, è interessato a me. Un gioco di sguardi (che a volte dura ore) è sufficiente per definire tutto. Mai nessuna parola. Mi alzo, vado al tavolo del turista, gli dico di lasciare sul tavolo cinquanta euro e di seguirmi. Entro nella stanza appositamente dedicata e aspetto il suo arrivo. Io sono un ragazzo bello, sia fisicamente sia di viso; ho sempre delle espressioni di simpatia, ne sono certo perché lo specchio non mente. Ammetto che sono fortunato e che la natura con me è stata davvero generosa. Così quasi tutte le sere io faccio sesso, sempre con persone diverse, ma esclusivamente maschietti che scelgo io.

Io sono un uomo marocchino e quindi sono sempre solo attivo con gli occidentali. Questo mi preserva dal sentirmi zamel perché a me piace essere uomo, sentirmi uomo, molto più uomo di loro. Mi piace avere il potere nei loro confronti, dominarli, fargli sentire quanto io sono forte, deciso, maschio! Sebbene vado a letto con persone del mio stesso sesso, per me è necessario avere il ruolo attivo come è disposto e forse, spero, consentito da Dio. Io non voglio essere confuso con i gay occidentali perché non mi interessa provare le loro perversioni, io sono e rimango un ragiul.

Mi da davvero piacere scegliere il maschio più bello, quello più virile, più forte fisicamente e sedurlo lentamente durante la serata sino a quando entra nella mia camera e accetta la mia dominanza. Spesso succede che questi maschi non abbiano mai avuto esperienze da passivi, altri addirittura nessuna esperienza omosessuale e questo mi fa tremare dall’emozione.

I miei tre ragazzi che lavorano al bar sanno cosa fare di quei cinquanta euro che i clienti lasciano sul tavolo prima di seguirmi: li infilano in una cassetta che ho appositamente costruito e che tengo sotto la cassa del bar.

Ogni fine mese contiamo i soldi e abbiamo una media di due mila euro Questo perché anche loro tre, a volte e se gli garba, si prestano a fare sesso, a divertirsi con i maschietti da loro selezionati. Nessuno di noi è sposato e economicamente viviamo bene così: io con quanto rende il bar e loro, oltre lo stipendio, hanno il dieci per cento sull’incasso. Oramai siamo un quartetto collaudato, ci siamo selezionati a vicenda, siamo simili come mentalità e ognuno di noi ha una propria stanza con servizi al primo piano ed in comune c’è un grande salotto, una cucina e una sala da pranzo. Con i soldi della cassetta nascosta sotto la cassa del bar ci divertiamo: tutte le settimane prendiamo la macchina e andiamo al mare, frequentiamo i locali più belli e simpatici, facciamo tutto quello che ci viene in mente di fare. Ma agiamo sempre in modo di tenere da parte più della metà dei soldi e così, una volta all’anno, chiudo il bar per venti giorni e andiamo tutti e quattro in Europa a fare i turisti. Abbiamo già girato quasi tutti i paesi, le loro capitali, le loro spiagge e spesso la compagnia delle loro donne.

Quanto durerà questo modo di vivere? Non è un problema. Non avendo preoccupazioni credo che invecchierò molto tardi e se muoio nessuno piangerà perché l’ho abbandonato …e questo mi rende sereno.

Io ho deciso di non sposarmi e di non avere figli e quindi vivo la mia vita come una opportunità che non mi richiede mai ne apprensione ne dolore, certo neppure la felicità di avere dei figli.

Avevo quindici anni quando presi questa decisione, perché da allora ho paura che i miei eventuali figli rimangano abbandonati, soli, come è successo a me quando mia madre smise di respirare.

È stato mio padre a dirmi che, la cosa più insopportabile della vita, è vedere il dolore di un figlio, il suo strazio, doverlo sorreggere al suo svenire per la stanchezza che provoca la disperazione.

A volte quando mi guarda mi dice che, pur essendo lui molto egoista, è certo che avrebbe preferito morire lui al posto di mia madre per non dover vivere la tortura di avere un figlio lacerato dall’abbandono materno.

È vero, la morte di mia madre io l’ho sempre vissuta come un abbandono, anche se avevo quindici anni e capivo che era stata la malattia a toglierle il respiro, comunque è lei che è andata via, lontano da me, dal figlio che l’adorava come una dea.

Mio padre non pianse per la morte della moglie, non gli diedi l’opportunità di farlo dovendo lui gestire il mio straziante dolore.

Quando ero bambino la mia bellissima mamma mi portava sempre con lei a passeggiare per i vicoli colorati di blu cobalto. Giocavamo a scegliere il blu più bello, quello che più ci faceva sognare il mare che non avevamo mai visto.

La mia mamma aveva voluto abitare in città e non nei campi agricoli di marijuana perché per lei era importante il colore, mi diceva che crescendo a Chefchaouen sarei diventato un uomo che avrebbe saputo vedere lontano sino all’orizzonte, anche se queste montagne me lo impedivano.

Mio padre accettava volentieri di fare tutti i giorni la strada dalla casa blu dove abitavamo sino alle piantagioni, l’importante era che la mia mamma fosse felice. Io amavo l’amore che esisteva tra il mio papà e la mia mamma come il rispetto e le attenzioni che si dedicavano.

Tra i papà e le mamme dei miei amici non percepivo quella felicità, quei sorrisi e non sentivo mai le mille parole gentili che invece si dedicavano tra loro i miei genitori.

Con i soldi che mio padre guadagnava dalla coltivazione della marijuana, appena raggiunta la cifra occorrente, mia madre comprava una casa nella città vecchia e poi si dedicava a rimetterla a posto e a restituirle tutti colori blu che pensava avesse originariamente. Passavamo molto tempo io e lei a decidere quali blu stavano meglio insieme, quali erano quelli giusti per i muri esposti al sole e quali tonalità di blu erano più indicate per le pareti che restavano in ombra.

Così io oggi ho alcune case molto belle in città, abitazioni che affitto alle famiglie che mi sembrano felici, nelle quali vedo armonia tra l’uomo e la donna. Le mie case le affitto solo a coppie di sposi che si sorridono.

La mia mamma ed io tutti i giorni camminavamo per i vicoli e le gradinate della città vecchia, un continuo saliscendi che a volte durava ore, anche perché molto tempo lo passavamo a chiacchierare con tutte le donne che lei conosceva. Anche quando la mia bellissima mamma ha iniziato ad essere malata, ha fare fatica a camminare per i vicoli di Chefchaouen, tutti i giorni, piano piano, io la accompagnavo a fare delle piccole passeggiate intorno a casa.

Una sera mio padre chiamò l’ambulanza. Io ero sdraiato nel letto accanto a lei, faceva fatica più del solito a respirare. Mio padre le era seduto accanto, le teneva una mano e le diceva cose molto belle. La mia mamma mi sorrideva, teneva la mia testa stretta alla sua, ricordo ancora quello scambio di sguardi intensi. Non parlavamo, ci guardavamo semplicemente dentro gli occhi. Io le diedi un grande bacio prima che la portassero via dal letto.

Vidi che in quel momento lei si addormentò. Era serena. Ricordo ancora il suo volto tranquillo con un leggero sorriso. Era bellissima.

Poi non ricordo più nulla.

Mi ritrovai ad abitare nella fattoria tra le coltivazioni di marijuana, senza colori. Mio padre non poteva vivere nella casa blu e anche durante il trasloco, dall’esterno chiedeva agli operai cosa prendere e cosa lasciare, non varcò mai più quella soglia.

Io avevo quindici anni e un amore tradito. L’essere lasciati dalla madre, a quindici anni, è insopportabile, incomprensibile. Perché se ne era andata? Perché mi aveva abbandonato? Sono certo di averla anche odiata per il male che mi aveva fatto. Tutte quelle speranze, il futuro radioso, una bellissima ragazza come futura moglie che lei avrebbe scelto perché io fossi felice tutta la vita, l’orizzonte infinito che mi aveva insegnato a vedere tra le tante sfumature di blu… perché aveva distrutto tutte le mie felicità e i miei sogni?

Non ero capace a perdonarla!

Lentamente, ma solo dopo molti mesi, ho iniziato a sopportare il dolore dell’abbandono e a non piangere più la notte, ma vivevo nel tormento di scoppiare a singhiozzare ovunque. Per non vedere i genitori dei miei amici smisi di frequentare le loro case. Tutto diventò banale, inutile, non avevo progetti.

Inizialmente tornavo quasi tutti i giorni tra le case blu cobalto, ripercorrevo quei vicoli cento, mille volte, ma sempre ero costretto a nascondermi in qualche angolo per piangere sino allo stordimento, con lo stomaco che si rivoltava facendomi vomitare anche il tè che le amiche della mamma mi offrivano ogni giorno. Spesso mio padre era costretto a venirmi a recuperare perché non avevo le forze per tornare alla fattoria con le mie gambe.

Ricordo che quando trovavo un muro con la sfumatura di blu che la mamma amava di più, io mi ci appoggiavo, lo accarezzavo, gli parlavo, gli raccontavo i miei pensieri. Ma sempre quell’intimità quasi incestuosa si trasformava: con la testa iniziavo a batterlo, lo prendevo a pugni, gli sputavo sopra, lo riempivo di calci, gli urlavo ogni cattiveria che conoscevo sino a quando qualcuno, impietosito, mi veniva a calmare.

Allora erano solo le lacrime a farmi compagnia e mio padre che, avvisato da qualche amico, veniva a prendermi per riportami alla fattoria.

Con il passare dei mesi le mie visite alla città vecchia si diradarono, iniziavo a pensare a me stesso, al mio futuro.

Nessuno mi avrebbe trovato una bellissima moglie con cui vivere felice, solo la mia mamma ne sarebbe stata capace, quindi decisi che dovevo costruire qualcosa che mi rendesse sereno, indipendente, solitario.

Decisi di non tornare più nei vicoli della città vecchia sino a quando non avessi capito cosa volevo dalla mia vita.

Mi stavo avvicinando ai diciotto anni quando un mattino sorpresi mio padre, in piedi, appoggiato ad un muro esterno della fattoria e con le mani si copriva il volto. Non mi avvicinai ma intuii che stava piangendo. Per la prima volta stava sfogando il suo dolore, la sua disperazione.

Lentamente scivolò con la schiena lungo il muro sino ad accucciarsi per terra. Gli operai, i braccianti, altri uomini si accorsero della situazione ma nessuno osò avvicinarsi a lui. Anche il suo inseparabile cane, che affettuosamente lo accompagnava tutto il giorno tra i campi, si era sdraiato a più di due metri di distanza e con la coda ferma lo guardava silenzioso Improvvisamente mio padre iniziò a battersi il petto, a tirarsi i capelli, vedevo che voleva urlare ma il respiro affannato glielo impediva, sembrava che tutto gli moriva in gola.

Mi allontanai da quella scena che non volevo vedere e camminai molte ore tra i campi senza sapere dove stavo andando, senza vedere la terra che calpestavo, spesso inciampavo, cadevo, mi rialzavo e continuavo a camminare veloce, quasi correndo.

A cena mio padre mi disse: “Oggi mi sono reso conto di quanto sono inadeguato a starti vicino, a crescerti, a darti speranze, ad ascoltarti, a capire i tuoi pensieri. Mi dispiace ma un uomo non può fare da madre, o perlomeno da mamma come era la tua.”

Non lo guardai, non gli risposi.

In realtà era stato un buon compagno di vita per me in quei tre anni: pieno di attenzioni e di preoccupazioni, ma certo la sua sensibilità era molto diversa da quella della mia mamma. So che a modo suo ha fatto il possibile, rinunciando addirittura a disperarsi per la morte della sua compagna di vita, non ne aveva mai avuto il tempo come forse non aveva ancora elaborato l’essere rimasto abbandonato.

In quel momento capii che quell’uomo doveva stare da solo. Adesso era giunto il suo di tempo per piangere la morte del suo amore.

Così, appena compiuti i diciotto anni, feci quello che sapevo mi avrebbe reso sereno. Capii che da solo avevo tutte le forze per affrontare la mia vita, per prendere le decisioni giuste per me.

Decisi di tornare tra il blu cobalto, viverci dentro intensamente, godere di ogni sua sfumatura, camminare tra i vicoli della medina azul, confondermi e perdermi tra quelle mura che rappresentano il mare, nella certezza di ritrovarmi.

Ancora oggi a volte piango, mi capita la mattina quando passeggio nella città antica, ma piango per l’emozione che mi da il ricordo di un ragazzino che si straziava contro un muro blu cobalto che rappresentava il suo essere stato abbandono.

Ho costruito un bar che è la mia casa, la mia tana, la nave di cui sono il comandante e che naviga nel mare blu di Chefchaouen.

Il mio bar è il mio rifugio affettivo per conoscere uomini che vogliono vivere la mia forza, i miei sogni, il mio essere maschio solitario e per tutti quelli che amano il mio Mojito preparato con le giovani foglie di marijuana.

I racconti brevi sono nati come stimolo di scrittura dall’incoraggiamento dell’amico Ennio e, in molti casi, sono stati pubblicati sul sito del quotidiano di opinione e cultura: gaiaitalia.com

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