racconti brevi di Gianfranco Maccaferri
Disegno incessantemente un paesaggio onirico e ricco di particolari, poi lo devasto usando tinte forti sovrapposte, voglio che i colori si violentino tra loro. Non riesco a fare altro. Difficilmente uso il bianco, il suo significato non ha spazio nella mia mente. Il bianco è un colore inopportuno per un paesaggio abusato.
Il blu è ovunque. Mi ossessiona. È il colore della mia carta d’identità israeliana che certifica la residenza ma non la mia cittadinanza o nazionalità: io sono un “arabo blu” di Gerusalemme est.
Io non ho una terra, una patria, uno stato, una nazione, un luogo. A Gerusalemme il mio essere palestinese non è mai esistito: nessun burocrate o militare israeliano mi ha mai chiamato palestinese, sempre e solo genericamente “arabo blu”.
Fortunatamente oggi posso vivere economicamente sereno perché ho i miei quadri che mi danno da vivere e mi permettono di girare molti paesi non miei.
I colori che uso mi fanno essere testimone, ricordano i morsi crudeli della rabbia che ho nello stomaco.
Non credo sia giusto saper disegnare ogni cosa, ogni naturale bellezza e non riuscire a colorarla. Al termine, tutti i miei dipinti sono quasi indistinguibili tra loro.
Essere capace a miscelare e a creare ogni sfumatura di colore non mi è sufficiente, infine mi ritrovo sempre a usare la spatola come il muratore usa la cazzuola per ricoprire con l’intonaco i mattoni.
Per buona sorte questo mio istinto violento e distruttivo viene valutato interessante dai galleristi. Loro guadagnano sulla mia inadeguatezza a vivere quieto e mi danno dei soldi perché io continui a distruggere e violentare i miei disegni di una Gerusalemme onirica.
Anche questa terra italiana non è la mia terra, ma ho iniziato ad affezionarmi alla sua bellezza da quando mi sono innamorato della persona che oggi amo, che credo di amare, che forse amo… Non lo so. Non sono certo di essere capace ad amare dopo essere scappato da Gerusalemme, lasciato la mia famiglia, il mio quartiere e aver abbandonato Isaac.
A Isaac non sono mai riuscito a dare un solo colore: l’ho disegnato centinaia di volte con la matita o il carboncino, ho usato segni differenti per descrivere la sua bellezza, ma mai un colore. Ho paura di cancellarlo, di imbrattare anche lui con tinte troppo potenti per restituire il suo essere la mia “anima bella”.
Il fatto stesso che Isaac esiste, mi ha insegnato a non odiare.
Non odiare in Italia è possibile, a Gerusalemme est no!
Nei campi profughi l’odio ti è dato involontariamente da tua madre nei nove mesi di gravidanza attraverso il liquido amniotico.
A Gaza direttamente dallo sperma di tuo padre.
A Gerusalemme est l’odio lo assorbi vivendo.
Isaac l’ho incontrato a una mostra di pittura contemporanea all’Israel Museum. Io mi sentivo, o forse ero davvero, l’unico palestinese a guardare le opere di quella mostra e così avevo l’impressione che tutti mi notassero. Anche lui.
Era un’esposizione molto contestata perché alcuni dipinti erano ritenuti osceni dagli ortodossi ebrei, musulmani, cristiani e molti articoli di giornali avevano dibattuto sull’opportunità dell’esposizione. Gerusalemme spesso è triste nelle proposte culturali: sembra che ogni religione debba essere più pura e morale delle altre… Una libera concorrenza.
Isaac era vestito strano, una via di mezzo tra un giovane qualunque e un ebreo ortodosso: scarpe, pantaloni e giacca erano neri, tuttavia invece della camicia aveva una t-shirt bianca e non aveva la kippah o un cappello nero.
I nostri sguardi s’incrociarono più volte, anche lui era da solo e notai che mi seguiva nel tragitto. Quando decisi di sedermi ai bordi di una delle sale espositive anche lui si sedette accanto a me. Si presentò con un sorriso gentile e cordiale. Io non conoscevo molti ragazzi ebrei e quindi ero molto diffidente. Invece Isaac mi disse serenamente che in famiglia nessuno sapeva che era venuto a vedere la mostra, suo padre si sarebbe molto arrabbiato l’avesse saputo, ma a lui la pittura contemporanea piaceva e quindi si era ritagliato qualche ora per vedere questa mostra così contestata. Io gli dissi che non avevo trovato nulla di moralmente osceno nei quadri anzi, ero certo che sarei tornato la settimana successiva per capire meglio la tecnica pittorica. Mentre parlavo Isaac continuava a fissarmi, poi mi chiese se poteva farmi un ritratto del viso, non quel giorno ovviamente, magari in un prossimo incontro. Gli risposi che anch’io disegnavo e mi sarebbe piaciuto fare un esperimento: ritrarci a vicenda nello stesso momento. Ne fu entusiasta.
Eravamo entrambi molto giovani e ancora troppo innocenti.
Continuammo il percorso espositivo insieme, parlando a lungo di ogni quadro. Il suo linguaggio non era tecnico, le sue parole erano semplici e mai banali. Per lui il disegno era un hobby con un potere speciale: in casa era l’unica possibilità per isolarli dalla numerosa famiglia. Per me invece era tutta la mia vita, era la fuga dai problemi, dall’insopportabile odio che respiravo nelle strade, in casa, a scuola… ovunque. L’aria di Gerusalemme est era come una ruggine che mi si depositava nei polmoni per poi diffondersi nel corpo attraverso il sangue, una rabbia ossidata dal tempo che solo il disegnare placava.
Ricordo quando, guardandomi serio negli occhi, Isaac mi disse: – Mi spiace molto che tu vivi nella tua terra da confinato, esule, profugo o come vuoi definirti. –
Iniziai a ridacchiare rumorosamente pensando mi stesse prendendo in giro. Lui rimase serio.
– È davvero quello che penso, mi sento in colpa per come tu vivi. –
– Scusa ma… Tu chi sei? Da dove vieni? Dove vivi? –
Fissando intensamente un quadro e parlando piano disse: – Io sono Haredim, sono antisionista perché il mio popolo aveva promesso a Dio di “non usare la forza per entrare in Israele”, io sono contrario all’occupazione della tua terra. Non è adesso e non è in questo modo che il mio popolo deve abitare qui. Spesso sono molto triste per quello che viene fatto ai ragazzi come te. –
Non credevo alle mie orecchie: – Tu pensi queste cose e sei ancora vivo? –
Mi guardò e con un’espressione di sfida, rivendicò il suo modo di esistere in Israele: – Io non sono mai entrato in una scuola dello stato, non faccio il militare, non vado a votare, io non riconosco questo stato di Israele. –
Con una mano lo presi da dietro la testa, l’avvicinai alla mia faccia e lo baciai sulla bocca. Non lo decisi, fu istintivo. Lui diventò rosso e iniziò a sudare: – Ma cosa hai fatto? Non possiamo fare questo. Tu sei matto. –
Mi misi a ridere: – Voi non vi baciate in bocca tra uomini? Non camminate tenendovi per mano come gli innamorati? Non andate a letto insieme? Pensavo che anche tu fossi come i ragazzi gay di Tel Aviv… L’ho visto in televisione, non puoi dire che non sia vero. – Mi misi a ridere per prenderlo in giro.
Lui rispose serissimo: – Io non ho la televisione e neppure internet. Anche il mio cellulare è disabilitato sia a internet, sia ai messaggini. Comunque ho letto che a Tel Aviv i ragazzi sono liberi di fare quello che vogliono, anche a Gerusalemme in certe zone, ma nel mio quartiere è diverso! …E poi io non lo farei mai. E tu? –
Decisi di essere sincero, almeno con lui sentivo che potevo essere libero: – Io sì, mi piacerebbe vivere come un ragazzo europeo o americano. Comunque nel mio quartiere è ancora peggio, mio padre mi ammazzerebbe e anche i miei amici mi sputerebbero addosso pubblicamente, anche se di alcuni ho qualche dubbio. Io credo che me ne andrò da Gerusalemme, non voglio vivere in una città dove sono i religiosi che comandano. Anche se c’è Al-Fatah che comanda a Gerusalemme est e che tiene a distanza i fondamentalisti, non conta nulla… È la mia gente che non accetterà mai due uomini che si amano. –
Isaac continuava a essere serio: – Mio padre conosce molti uomini di Al-Fatah, ma moralmente credo sia più vicino a Hamas, a lui piace chi riconosce nella religione un ruolo guida per governare uno stato… Io penso altro, ma non importa. –
Isaac era il ragazzo più bello che avessi mai visto, innocente, orgoglioso, ambiguo, avrei voluto continuare a parlare con lui per ore. Purtroppo il suo tempo libero era scaduto.
Allontanandosi lentamente mi salutò dicendo: – Io vivo con persone che hanno idee diverse da tutti, idee antiche. Anch’io vorrei andarmene lontano dalla famiglia, da Gerusalemme, da questa terra. Forse io e te siamo uguali. La settimana prossima sarò qui. E tu? –
– Certo, dobbiamo ritrarci a vicenda… –
– Shalom aleichem –
– Ma‘a as-salāma –
Quella sera interrogai mio padre sugli ebrei Haredim: lui li riteneva alleati dei palestinesi in quanto antisionisti, ma ovviamente nemici dell’islam. Sapeva che gli Haredim erano in buoni rapporti con Al-Fatha e con Hamas, nondimeno li riteneva degli esaltati pericolosi, gente che persegue i dettami biblici come fossero davvero legge… mio padre è sempre stato molto ateo nella sua visione della società anche se pretendeva che tutta la famiglia si attenesse ai riti, alle festività e a tutto ciò che l’essere musulmani richiedeva.
Molte ore di quella notte e dei giorni successivi li dedicai a cercare su internet ogni notizia attinente gli Haredim. Capii quanto fossero davvero fondamentalisti su tutto, nulla lasciava sperare in qualche attualizzazione verso i costumi della società. Capii che la mia amicizia con Isaac sarebbe stata ostacolata o forse impossibile, però Isaac aveva detto parole che mi lasciavano sognare. Attesi con impazienza il nostro incontro della settimana successiva.
Quando lo vidi mi sembrò luminoso, raggiante, quasi incontenibile nell’eccitazione di ritrovarci.
Andammo lontano da tutti. Non volevamo essere notati o sottoposti a controlli. Trovammo un posto tranquillo, ci sedemmo su un muretto e, a pochi decimetri l’uno dall’altro, iniziammo a tracciare i lineamenti dei nostri visi poi, sempre più attenti ai particolari, delineammo l’espressione, lo sguardo, la bellezza di ognuno di noi.
Risultarono molto simili i due disegni a carboncino, entrambi ritraevano un ragazzo assorto a disegnare, un ragazzo bellissimo. Isaac mi aveva ritratto come allo specchio non mi ero mai visto: aveva accentuato molto i miei tratti rendendoli gentili anziché duri, gli occhi li aveva resi luminosi e pieni di sensualità. Ridendo gli chiesi se era veramente così tanto innamorato di me.
Divenne rosso come un pomodoro e abbassando lo sguardo, sussurrò: – In questi giorni ti ho pensato molto, ho fatto molta fatica anche a pregare. Sei ovunque nelle mie immaginazioni. –
– Sei sincero, sei tutto rosso. – Mi misi in piedi e mi avvicinai a lui tanto da sentirne l’alito: – Anche tu sei stato nei miei pensieri sempre. Tutti i giorni pensavo a questo momento, a cosa ti avrei detto. –
– Non dire nulla, io non posso più pensarti, volevo chiederti di essere mio amico, null’altro… Ti prego. –
Io gli accarezzai la guancia e gli sussurrai: – Anch’io lo vorrei, perché ho paura! Adesso cosa facciamo? E tu cosa vorresti fare? –
Isaac mi guardò negli occhi: – Prendere un aereo e andare lontano da qui, da questa gente, da questa terra, essere soli tu ed io. Avere una casa nostra. –
Invece di guardare me continuava a fissare il ritratto che io gli avevo fatto: – Io comunque vivo nella mia comunità e la mia famiglia è importante per me, forse non avrò mai il coraggio di lasciarla. – La sua sincerità e le sue parole oneste continuavano a turbarmi, non c’ero abituato: – Io sto male a non vederti. –
Gli baciai i capelli neri. Lo strinsi forte, lui si mise a piangere. Anch’io non trattenni le lacrime.
I nostri incontri continuarono a essere nei parchi dell’Israel Museum, un luogo frequentato da persone di tutti i tipi e di tutte le provenienze, quindi nessuno, o quasi, ci osservava. Il giardino che più ci piaceva era quello d’arte Billy Rose, pieno di sculture dei grandi maestri dell’arte moderna. I nostri appuntamenti divennero sempre più frequenti, anche due volte alla settimana. Era lui a chiamarmi al telefono per dirmi quando era libero; io mollavo tutto quello che stavo facendo e prendevo l’autobus arabo per andare al museo, lui arrivava con quello della compagnia ebraica.
Isaac viveva un momento complicato, pieno di dubbi, non accettava i suoi sentimenti verso di me, lo diceva apertamente, era autentico, sempre. Ne parlammo a lungo. Io usai tutte le parole, gli sguardi, i sorrisi che conoscevo per suscitare in lui anche un solo dubbio e dopo alcune settimane avevo la sensazione che lentamente si allontanava dalla rigidità del suo essere Haredim. Io insistevo sulla naturalezza del nostro innamoramento, gli spiegavo che in tutto il mondo occidentale l’omosessualità non è considerata una malattia o un handicap, lui mi sorrideva e mi rispondeva: – Tu non capisci quanto è difficile per me. –
Non era giusto che solo lui esternasse il non essere accettato, così gli dissi: – Per me è peggio perché io avrei voglia di urlare per le strade del mio quartiere quanto sono fortunato ad averti conosciuto, vorrei raccontare a tutti quanto sei importante per me, invece nessuno lo deve sapere, neppure sospettare. Ai miei amici parlerei solo di te, eppure sto zitto, a nessuno ho fatto il tuo nome. –
Un giorno decisi di andare a Mea Shearim, il quartiere di Isaac. Non ero mai stato tra quelle case e rimasi stupito dal fatto che ogni angolo dei muri era tappezzato da pashkvil, i manifesti che gli ultraortodossi utilizzano per fare comunicazioni importanti: quasi tutti inneggiavano contro internet, cellulari, televisioni e vestiti occidentali. Mi sentii soffocare. Pensai a Isaac che viveva in quel delirio fuori dal mondo. A confronto le pretese religiose dei fratelli musulmani erano rispettose della libertà individuale. Poi mi sorpresi nel vedere che i muri delle case e delle scuole erano dipinti con numerose bandiere palestinesi. Leggendo i manifesti capii che la famiglia di Isaac era della corrente “Neturei Karta”, ancora più integralista degli Haredim sui quali oramai sapevo tutto. Così capii perché Isaac non era mai stato al Muro Occidentale e perché riteneva una follia l’idea dei due stati: lui era convinto che la Palestina è la terra che appartiene di diritto al popolo palestinese. Per questo lo amai ancora di più, eppure ero triste nel saperlo preda di una setta di pazzi religiosi.
Passeggiando tra quelle stradine capii la mia superficialità nell’odiare il popolo ebraico. Ragionando tra me e me, intuii che Israele è un insieme religioso, politico, culturale talmente ricco di sottoinsiemi che si contraddice da solo: addirittura difende gli ebrei che, dal suo stesso interno, non riconoscono lo stato. E questo mi sembrava davvero inverosimile.
Quel pomeriggio mi si aprì un mondo di idee, tolleranze, convivenze che non supponevo esistesse nella mia mente rancorosa.
Pensai che anche il popolo arabo è così diversificato per estremismi di pensiero, interpretazioni del Corano, intendere la vita privata del singolo e quella degli altri. Subito dopo considerai che sbagliavo! Che mi ero sempre ingannato nel credere alleati dei palestinesi tutti gli arabi. Non era vero, troppo spesso avevano giocano sulla vita dei palestinesi, sulla mia vita, mentre il popolo ebraico non l’ha mai fatto con le sue diverse componenti. Anche quelle più estreme. Israele protegge ogni ebreo, chiunque esso sia.
Da quel giorno, tra le strade di quel quartiere ebraico, decisi che io ero un palestinese e non un arabo.
Ricordo che entrai in un bar a bere del tè, il bar che scelsi aveva il nome della famiglia di Isaac. Fui accolto normalmente e così, poco dopo, mi decisi a chiedere se conoscevano la casa della famiglia di Isaac. Era proprio di fronte al bar, dalle vetrate potevo vedere il portoncino d’ingresso. Attesi impaziente di vederlo. Appena lo scorsi mi alzai dal tavolino e corsi sul marciapiede, lo chiamai. Lui mi guardò incredulo, poi mi raggiunse e si sedette con me a bere un tè. Per la prima volta ci incontravamo tranquillamente in un bar, come fanno tutti i ragazzi. Isaac era preoccupato ma divertito dalla mia improvvisata. Mi raccontò che il bar era dello zio e quindi, alla sera, sarebbe stato costretto raccontare al padre della sua strana amicizia con un palestinese. Ne fui felice. Chiacchierammo di tutto: dalla stranezza di quel quartiere ai pashkvil, dai suoi numerosi fratelli alle mie due sorelle, dal graffitaro americano Basquiat a Banksy, l’artista che ha dipinto provocatoriamente in più parti il muro di separazione, la “barriera di sicurezza”, il muro della vergogna che divide Gerusalemme e soprattutto separa Isaac da me.
Stanchi di stare seduti decidemmo di passeggiare tra quelle strade. Tutti conoscevano Isaac, più ci allontanavamo da casa sua e più la gente che incontravamo gli chiedeva di suo padre, poi di sua madre e poi di tutti i fratelli, infine lo invitavano a presentarmi. Trovai la situazione molto bella ma indubbiamente anche assillante e iniziai a capire le ansie di Isaac sull’essere individuato e controllato ovunque.
A sera raccontai per la prima volta a mio padre della mia amicizia con Isaac e del mio pomeriggio nel quartiere Mea Shearim. Lui si disse felice della mia esperienza, tuttavia si raccomandò di fare molta attenzione: – Gli Haredim sono “coloro che tremano davanti alla parola di Dio”, pensa a ciò che significa questa frase, soprattutto rifletti bene prima di stringere una forte amicizia con un ragazzo che ha il cervello e i pensieri intrisi di dogmi antichi, lontani da questo mondo reale. –
Non potevo certo raccontare a mio padre che ero innamorato di quel ragazzo, eppure le sue parole mi fecero riflettere molto sulle contraddizioni che Isaac stava vivendo, suo malgrado.
Dopo alcuni minuti mio padre continuò: – La nostra famiglia non è mai stata fondamentalista, io sono cresciuto con l’idea socialista democratica di Yasser Arafat, un socialismo islamico, ma sicuramente lontano dall’idea di uno stato religioso. Comunque, se vuoi invitare il tuo amico a casa nostra, sarà per noi un grande onore averlo venerdì come ospite. Inshallah –
Quella sera Isaac mi telefonò per raccontarmi di suo padre che era felice della nostra amicizia, anche se non capiva la necessità di suo figlio ad avere un amico che non fosse un compagno di studi ebraici. Lo sentii rilassato. Finalmente non doveva più avere segreti con la sua famiglia, o quasi. Io gli dissi dell’invito a casa mia, della possibilità di stare insieme tranquillamente perché il venerdì, finito il pranzo, i miei genitori andavano sempre a trovare i parenti sino a cena. Isaac promise di chiedere a suo padre se poteva, tuttavia capii che ciò che lo preoccupava non era tanto il venire a pranzo a casa mia, quanto il restare io e lui da soli.
Il venerdì tanto sognato arrivò. Avevo chiesto a mio padre di non essere ossessivo con Isaac e se io potevo, dopo pranzo, stare con Isaac a casa senza seguirli dai parenti. Mio padre disse che non c’erano problemi a lasciarci soli anzi, aveva chiesto a mia madre di preparare qualche dolce per la merenda di suo figlio e del giovane ospite ebreo.
Lo andai a prendere alla fermata dell’autobus vicino alla città vecchia e lentamente passeggiammo verso il quartiere dove abitavano i miei nonni. Silwan è caotica, è a stragrande maggioranza palestinese. Anche per Isaac fu una nuova esperienza camminare tra quelle piccole strade. In realtà la mia casa è di là dal muro, verso Eizariya, ma volevo far conoscere a Isaac la realtà di uno dei quartieri più difficili di tutta Gerusalemme.
Spiegai a Isaac che avevo paura per quel rione: – Anche qui gli israeliani stanno abbattendo le case e costruiscono edifici per i coloni. Sotto terra, sotto le nostre case, centinaia e centinai di metri di gallerie sono scavati per degli studi archeologici israeliani; intanto le mura portanti delle nostre abitazioni si crepano, crollano e gli ebrei comprano, costruiscono e si insediano. –
Risultò difficile ad entrambi capire gli ebrei che pretendono di vivere in questo quartiere. Vivere non potendo essere mai felici, tranquilli, sereni. Come puoi pensare di portare la tua famiglia ad abitare in mezzo ad un quartiere dove tutti ti odiano e comunque nessuno vorrà mai condividere nulla con te? A Isaac sottolineai che io non odiavo quegli ebrei, ma non li capivo. Anzi, li consideravo delle persone che non sanno apprezzare la vita per quello che è: – Vivranno male ogni loro giorno… –
Continuando a passeggiare attraversammo il posto di blocco del muro della vergogna e prendemmo un autobus che ci portò vicino a casa mia.
Seduti sull’autobus, colsi l’occasione per rendere comprensibile a Isaac che io non avevo mai partecipato alle rimostranze dei giovani palestinesi contro i soprusi dei militari israeliani, mio padre me lo aveva sempre impedito dicendo che: “non è con un sasso da te lanciato a un soldato Israeliano che a Gerusalemme i palestinesi vivranno meglio”.
Spiegai a Isaac che mio padre è un pacifista, uno che confida nella politica, nella parola. Sicuramente crede nel fatto che a ogni azione ne corrisponde una uguale e contraria. È però certo che la vita di una persona è molto più importante degli sfoghi rancorosi, soprattutto la vita di suo figlio.
A tavola lasciammo a Isaac il tempo per le preghiere prima di iniziare a mangiare(Barukh ‘attah Adonai…) e noi rispettosamente restammo in silenzio. Mia madre spiegò che non aveva usato né burro né formaggi nella cottura dei cibi ma solo olio e brodo vegetale. Isaac ringraziò della cortesia. I falafel, assaporati guardando Isaac, mi sembrarono i più buoni che avessi mai mangiato e così anche il ricco piatto di maftoul, gli ebrei lo chiamano ptitim, con tante verdure e legumi. Mia madre sapeva cosa poteva cucinare avendo un ospite ebreo, infatti Isaac era a suo agio e fece molti complimenti alla cuoca.
In realtà il giorno prima mia madre aveva avuto una crisi isterica non potendo cucinare crostacei, cammello, coniglio e soprattutto non potendo utilizzare recipienti che aveva precedentemente usato per i latticini.
Durante il pranzo mio padre propose di confrontare i sogni e i progetti che Isaac ed io avevamo per la nostra vita. Io sapevo che volevo diventare un pittore, Isaac invece non sapeva se scegliere anche lui l’arte come me o affidarsi alle scelte del padre che per lui immaginava un futuro da commerciante. Entrambi però avremmo voluto abbandonare la Palestina e vivere in un paese europeo. Essendo io l’unico figlio maschio, mio padre espresse il dispiacere per un mio futuro allontanamento dalla famiglia, ma capiva la mia esigenza di vivere in un paese senza odio. Isaac disse che suo padre non gli avrebbe mai dato i soldi per andare lontano a fare l’artista, quindi era rassegnato a vivere a Gerusalemme. Mio padre gli disse che i sogni bisogna realizzarli, che è necessario fare scelte personali. Isaac sembrò scandalizzarsi dell’idea egoistica e individualistica di mio padre, poi disse che Dio gli avrebbe indicato la strada migliore da intraprendere per lui e la sua famiglia.
Finito il pranzo, rispettosamente lasciammo a Isaac il tempo per la birkat hamazon, il ringraziare Dio del pane che aveva trovato in tavola (Baruch Eloheinu she-achalnu mishelo uv’tuvo chayinu. Baruch hu uvaruch sh’mo).
I miei si prepararono per andare a trovare i parenti e dopo circa mezz’ora uscirono di casa. Isaac ed io andammo in camera mia per ascoltare musica e guardare i miei disegni.
Appena chiusa la porta avvolsi da dietro Isaac in un abbraccio. Lui girò la testa e io lo baciai. Lui rispose girandosi e accarezzandomi i capelli. Dopo qualche attimo si staccò e mi disse: – Sapevo che sarebbe successo. Io sono timido. Tu sei sicuro di ciò che vuoi, ma io no. Cioè io sono felice di essere qui, adesso, ma forse è meglio che torni a casa mia. –
Lo guardai a lungo in silenzio, poi mi avvicinai e iniziai a togliergli la camicia, lo baciai su tutto il petto, anche lui mi sfilò la maglia, ci abbracciammo e lentamente ci sdraiammo sul mio letto. Con la mano sbottonai sia i suoi che i miei pantaloni. Quando rimanemmo con le mutande, sentimmo i nostri membri eccitati, allora io presi il suo nella mano e lui fece uguale. Mentre continuavamo a baciarci venimmo quasi senza accorgercene. Ridemmo molto della situazione in cui ci trovavamo e corremmo in bagno a lavarci.
Il pomeriggio ci vide appiccicati per ore. Sembravamo essere un solo corpo… Infinite volte Isaac mi disse “ti amo” e io a lui “sei bellissimo”.
Ricordo di non avergli detto che lo amavo. Era il momento più incredibile della mia vita e le mie parole erano riferite solo al suo corpo, bellissimo certo, ma mai la parola “ti amo” è uscita dalla mia bocca.
Nessuno di noi due aveva mai fatto sesso e quindi ci sembrò enorme già il solo fatto di masturbarci a vicenda, carezzandoci sempre.
La nostra curiosità reciproca nel conoscere il corpo dell’altro si spinse sino a baciarci ovunque; ricorderò sempre il momento in cui gli baciai il pene e lui venne immediatamente. Quando lui si avvicinò al mio, io tentai di forzarlo nell’introdurglielo in bocca ma capii che stavo esagerando.
L’inizio della sera ci colse di sorpresa e così, velocemente ci rivestimmo e accompagnai Isaac sino al checkpoint per l’ingresso nella Gerusalemme israeliana. A qualche metro dal blocco ci prendemmo per mano e ci siamo dati un bacio sul viso, innocente.
Che cosa successe arrivati allo sbarramento presidiato dai militari israeliani, non lo ricordo bene: Isaac mostrò i suoi documenti, poi lo presero da parte, iniziarono a parlargli velocemente e vedevo che lui scuoteva la testa. I soldati chiamarono anche me e iniziarono a insultarmi dandomi del finocchio. Vidi che Isaac piangeva, ripeteva solo – Non fatelo, non è vero. – Poi lo lasciarono andare e lo vidi correre via senza voltarsi. Io avevo paura, tremavo, i soldati iniziarono a dirmi che il mio essere finocchio sarebbe giunto alle orecchie di mio padre, della mia famiglia, dei miei amici.
Ero terrorizzato, non potevano fare questo. Ricordo che ripetevo solo infiniti “no”.
Trascrissero tutti i miei dati e mi ordinarono di presentarmi il giorno successivo presso l’ufficio militare che era segnato in un biglietto che mi misero in tasca. – Adesso vai a casa e domani sii puntuale. –
Telefonai immediatamente a Isaac, la sua voce era tremante. Mi disse che lo avevano minacciato di raccontare al padre che era un finocchio se lui non mi avesse convinto a fare ciò che loro volevano da me.
Io gli dissi che mi avevano ordinato di andare all’indomani in un centro militare, che mi volevano parlare, ma non mi avevano detto di cosa. Isaac mi pregò, mi supplicò di fare tutto ciò che loro volevano. Capii che stava piangendo.
Avevo già sentito dai miei amici che i soldati israeliani a volte ricattavano i ragazzi palestinesi per avere informazioni rispetto alla gente del loro quartiere o altre strane situazioni. Sapevo anche che dei ragazzi poveri andavano a prostituirsi con i militari israeliani per guadagnare dei soldi, ma quelli ricattati erano ragazzi che venivano scoperti ad avere delle storie d’amore con i ragazzi ebrei, non i prostituti.
Ero confuso, non sapevo se raccontarlo a mio padre subito o aspettare all’indomani dopo essere stato a sentire cosa volevano i soldati.
Arrivato a casa non ci fu bisogno di decidere: probabilmente ero talmente sconvolto che mio padre si accorse subito che stavo male. Gli raccontai tutto quanto era successo al check point. Mi abbracciò come non aveva mai fatto. Mi baciò sulla testa. – Non ti preoccupare, adesso telefono a un po’ di amici per capire cosa è meglio fare, tu vai in camera poi ti raggiungo. –
Avergli raccontato quanto accaduto mi aiutò a essere sereno. Un padre è davvero importante. Il suo essere protettivo e premuroso mi fece capire l’amore che aveva per me. Il fatto di prendere lui in pugno la situazione mi sollevò dal decidere ciò che io non avrei saputo scegliere.
Quando aprì la porta ed entrò in camera vidi i suoi occhi rossi e luccicanti, rimase a lungo in silenzio guardandomi. Provò a parlare ma le parole non gli uscirono, iniziò a singhiozzare. Mi venne vicino e mi abbraccio con una forza tale da farmi sentire piccolo, fragile. Continuava a non dire nulla. All’improvviso si distaccò e velocemente andò in bagno chiudendosi dentro. Mi avvicinai a quella porta e così sentii, per la prima volta in vita mia, mio padre piangere. Arrivò mia madre che mi obbligò a tornare in camera, poi si fece aprire la porta del bagno e dopo qualche minuto sentii anche il suo pianto.
Giunsero insieme in camera, si tenevano abbracciati come due fidanzati, si sostenevano a vicenda.
Mio padre mi spiegò che le possibilità erano due: una era quella di andare al centro militare insieme, io e lui, per spiegare che non c’era nulla di male nella mia vita, così da evitare il possibile ricatto; la seconda era che io partissi velocemente, lontano da Gerusalemme.
Mi spiegò che la decisione doveva essere mia, ciò nondimeno dovevo sapere che se mi avevano segnalato come possibile elemento cui chiedere informazioni, avrei potuto avere anche in futuro grandi problemi tra la nostra gente perché, o come finocchio o come spia, probabilmente mi avrebbero sputtanato.
Gli amici di mio padre avevano suggerito il mio allontanamento per un periodo abbastanza lungo, inoltre avevano proposto a mio padre e a mia madre di andare loro a parlare con i militari il giorno successivo e spiegare che loro figlio non aveva nulla da nascondere a nessuno. In questo modo tutto si sarebbe risolto in un nulla di fatto e nell’arco di qualche tempo tutto sarebbe stato dimenticato. Io sarei potuto tornare a Gerusalemme dopo qualche mese.
Un solo pensiero mi venne in mente e lo espressi: – E Isaac? Lui cosa può fare? –
– Non è un problema nostro. Anche lui ha un padre, saprà lui cosa è meglio fare per suo figlio. –
– Io non vado via, non lascio qui da solo Isaac, non lo abbandonerò mai. –
Mio padre mi guardò in modo curioso, poi divenne serio e disse: – Isaac da domani non lo vedrai mai più. –
Iniziarono a scendermi delle lacrime sulle guancie: – Ma tu non capisci, io non vado lontano da lui. Isaac… –
Iniziai a piangere e singhiozzare, sentii che l’aria non saliva o scendeva dalla gola, stavo soffocando, corsi in bagno a vomitare, piangendo.
Quando tornai in camera, mio padre stava parlando con il mio cellulare al padre di Isaac, gli spiegò quanto accaduto e che io sarei partito immediatamente per l’Europa. Lo salutò con grande rispetto, facendogli i migliori auguri per risolvere felicemente la situazione con suo figlio. Terminata la telefonata si mise il mio cellulare in tasca, ordinò a mia madre di aiutarmi a fare una valigia con tutto quanto poteva servirmi, poi telefonò a un suo amico autista e gli spiegò che doveva portarmi… Non capii dove, ma sentii bene quale sarebbe stata la mia destinazione finale: Parigi, da un mio zio. Per i documenti nessun problema disse, all’indomani si sarebbe procurato tutti i permessi necessari.
Ricordo ancora le mie urla: – Non puoi farlo, non puoi. Ti prego dammi il mio cellulare, ti prego devo sentire Isaac. Non farmi andare via, ti supplico… Farò tutto ciò che vuoi ma non farmi partire. –
Dopo dieci giorni mi ritrovai all’aeroporto Charle De Gaulle di Parigi con mio zio che mi salutava amorevolmente.
Credo di essere rimasto muto per una settimana.
Un giorno decisi di uscire di casa e di andare al Louvre, solo l’arte mi avrebbe permesso di dare un senso al mio essere lontano da Gerusalemme.
Mi ritrovai quasi per caso nella sala quattro. Vidi gli schiavi di Michelangelo, la loro muscolatura, la loro forza, la potenza della fisicità assoluta.
Poco oltre, il contrasto estetico: scoprii la geometria perfetta abbinata alla morbidezza, all’eleganza, alla grazia. Mai avevo visto tanta bellezza: Amore e psiche che si abbracciano, la scultura di Canova.
Quella sospensione del tempo nell’attimo sublime, mi bloccò impietrito. Continuando a fissare tanto splendore, le lacrime iniziarono a scorrere sul mio viso, il pianto si fece ritmato, lungo, interminabile.
Tutta quell’armonia così naturale e perfetta trascinava ogni mio pensiero a Isaac. Non riuscivo a spostarmi, a fare neppure un passo, continuavo a fissare quel marmo bianco e a piangere. Probabilmente in molti mi guardarono stupiti, ma nessuno osò avvicinarsi a me. Quando riuscii a muovermi cambiai angolo di visuale, poi un altro… rimasi accanto a tanta delicata perfezione sino alla chiusura della sala.
Uscito dal Louvre andai a comprare delle tele e, arrivato a casa, cominciai a tracciare con la matita paesaggi onirici: una e poi tante Gerusalemme, bellissime. Stanco di disegnare iniziai a colorare delicatamente ogni tela.
Sfinito da tanto lavoro mi sdraiai sul letto. Quella notte ripensai a quanto ero lontano dal mio amore, dai miei sentimenti, da quella Gerusalemme. Mi sentii inutile e inadeguato verso quelli che erano i miei impulsi, la vita che avrei voluto vivere.
Il mattino presto, nervoso per non riuscire a dormire, presi la mia carta d’identità israeliana, quella blu che mi aveva accompagnato in ogni mio peregrinare per Gerusalemme. La guardai per lungo tempo pensando ai miei abbandoni. Mi alzai e con furia, panico, rancore e tante lacrime ho iniziato a ricoprire con del blu i paesaggi delicatamente colorati la sera precedente. Il blu aveva la stessa tonalità di quello della mia carta d’identità israeliana, tutto doveva avere un senso compiuto.
Molte furono le notti uguali una all’altra e, dopo alcuni mesi, i quadri invadevano ogni spazio della mia camera. Mio zio, ottimo commerciante di antichità, chiamò un suo amico e fece fotografare una ventina di quadri. Inviò le immagini a un gallerista suo cliente che ne rimase entusiasta e mi volle conoscere di persona.
Senza pudore gli raccontai tutta la mia storia, ero in Francia e potevo essere sincero.
La settimana successiva il gallerista mandò un furgone che caricò l’intera mia produzione. Organizzò una prima mostra in una galleria minore. Spese molto per fare in modo che alcuni critici e giornalisti andassero a vedere i miei quadri. Da quel momento i miei paesaggi della Gerusalemme onirica devastati da colori violenti sono la mia vita. Da sei anni non faccio altro che dipingere.
Questa mattina il mio gallerista italiano mi ha chiamato per dirmi che un visitatore gli ha lasciato una piccola busta chiusa per me. Gli ho detto di aprirla e di leggere cosa c’era scritto sul biglietto che conteneva.
“Sono in Italia, a Milano da dieci giorni. Faccio il design di mobili. Ho deciso che mi fermo qui a vivere. Se vuoi, se puoi, questo è il mio indirizzo di casa… Isaac.”
Un brivido lungo la schiena mi ha fatto tremare dal freddo.
Senza considerare nulla ho preparato una piccola valigia, senza pensare al mio ragazzo italiano sono salito in macchina, poi un rimorso mi ha fatto ridiscendere e tornare in casa. Ho scritto un biglietto “Sono a Milano, ti telefono”, tornato a sedermi in macchina ho avviato il motore dell’auto e in due ore sono giunto a Milano.
Per tutto il viaggio ho cantato a squarciagola.
E adesso sono qui, davanti alla porta di un appartamento, sul campanello c’è scritto solo “Isaac”.
La mano trema, ma riesco a premere il pulsante e sento una voce dall’interno: “Un attimo… Arrivo.”
Le pulsazioni del mio cuore le sento sino in gola. Quella voce mi ha trasmesso le vertigini, mi sembra che tutto intorno a me giri, con la mano stringo forte la ringhiera delle scale, sento il mio respiro violento.
Quando la porta si apre, l’espressione del volto di Isaac si blocca sullo stupore e io smetto di respirare.
Il suo viso, non più adolescente, è la perfezione della bellezza.
Non so se il silenzio è imbarazzante, ma non ho le parole utili per dichiarare la mia emozione.
Rimaniamo a lungo a guardarci negli occhi.
Riprendo il respiro regolare e riesco solo dire: – Eccomi… –
Isaac continua a fissarmi impietrito. Questo è il momento per dirgli ciò che non gli ho mai detto.
Le parole sono quelle che ho pensato mille volte e non ho mai pronunciato: – Isaac io ti amo. Te lo ripeto: io ti amo. Sono venuto a dirti che io ti amo. –
Isaac mi sta leggendo la passione, l’affetto, l’emozione, l’eccitazione. Mi volto per interrompere il suo guardarmi e istintivamente mi siedo sui gradini delle scale. Mi copro il viso con le mani e inizio a singhiozzare dall’emozione per avergli finalmente detto ciò che trattenevo da sei anni.
Isaac si avvicina, sento le sue mani sulle mie spalle e a bassa voce mi sussurra: – È dal primo giorno che ti ho visto che aspetto queste tue parole. “Ti amo” io l’ho detto in camera tua, ricordi… E non ho cambiato idea, non ci sono mai riuscito. Adesso entra… questa è la nostra casa. –
Leggi anche il libro: “Tasto 69” di Gianfranco Maccaferri
I racconti brevi sono nati come stimolo di scrittura dall’incoraggiamento dell’amico Ennio e, in molti casi, sono stati pubblicati sul sito del quotidiano di opinione e cultura: gaiaitalia.com
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