il senso del mio vivere

Racconto breve di Gianfranco Maccaferri

Scorre lento il tempo ai bordi questo piccolo fiume e sempre uguale è il flusso di questa acqua. A volte passa una foglia, a volte un rametto. Mai nulla di diverso. Anche i pesci, che osservo in trasparenza, si muovono in modo prevedibile. Conosco il loro cercare, il rincorrere qualcosa, il porsi in attesa e l’abboccare al mio amo ogni volta si ripete identico.

Il mio impegno giornaliero è semplice: sedermi sulla stessa roccia e passare il tempo a ingannare i pesci. Non ci vuole fantasia, intuito, intelligenza. È il confermare gesti monotoni e senza variazioni, che mi permette di tornare al villaggio con pesci a sufficienza per la famiglia e molti parenti.

Nessuno mi chiede altro, sono utile a tutti per questo mio ripetermi quotidiano.

Nessuno sa dove vado quando al mattino parto da solo verso la giungla. Nessuno mi segue perché entro in uno spazio ritenuto protetto, dedicato ai monaci che hanno deciso di allontanarsi dalla vita sociale per meditare.

Porto con me del riso e, a seconda delle stagioni, della verdura.

I cinque monaci che vivono nella giungla non mi parlano mai, mi sorridono e mi fanno gesti di ringraziamento. Io osservo il loro silenzio.

Nella mia solitudine raggiungo il piccolo fiume e mi siedo sempre sulla stessa roccia a esplorare la prevedibilità dei pesci.

Concentrarmi sullo scorrere lento dell’acqua, su ciò che galleggiando trascina, sui movimenti che avvengono al di sotto della superficie, tutto questo mi regala la serenità del mio tempo vitale.

Non ho un precedente, ieri o l’altro ieri, come non fremo per un destino. Sarebbe superfluo.

La sera la trascorro osservando le persone del villaggio: hanno sempre molto da raccontarsi anche se nulla è successo. Ascolto i sogni, i progetti dei giovani e il vissuto dei vecchi. Tutto si collega, combacia, si ripete inevitabilmente.

Gli uni smaniano per vivere, gli altri affermano di aver vissuto.

Ma il momento, il tempo specifico dell’incontro serale, non viene considerato come vitale ne dagli uni ne dagli altri.

Per me è essenziale; è il segno che io non sono solo in questa vita, la conferma che non sono un animale che, nella sua solitudine, deve combattere per la sopravvivenza; l’incontro serale è un rituale che si ripete da sempre, un appuntamento solidale tra persone che convivono e condividono case, terra, esperienze, cibo.

L’unica vera mia passione sono il ritmo e la musica, la realizzo suonando le percussioni con qualsiasi oggetto che ho a disposizione. Molte serate, quelle organizzate solo tra amici coetanei, le trascorro suonando e facendo ballare tutti.

Encomiare il fatto di fornire il pesce per la comunità e il condividere fisicamente il tempo del riposo… è il mio vivere, la mia serenità, la mia piccola felicità.

Il resto del mio tempo è il meraviglioso “non tempo”. La sospensione nel nulla.

Quel tempo da trascorrere senza lavorare, parlare, guardare, sentire, leggere, scrivere, fare sesso o masturbarsi, senza pensare a nulla.

Il “non tempo” trascorre prendendosi cura del trascendente personale. La situazione in cui si vive in equilibrio senza desideri o delusioni, senza programmare o arrabbiarsi, senza pensare di dover dare o di dover ricevere.

Ero giovane ed è stato un giovane monaco, con pochi anni più di me, che mi ha insegnato il vivere sereno.

Lo incontrai la prima volta al villaggio, io ero eccitato, volevo cambiare la vita, desideravo vedere e palpare ciò che succedeva lontano da questa terra; avevo sogni e ambizioni confusi, ma volevo mordere la vita.

Questo giovane monaco si avvicinò, sicuramente mi ascoltò mentre raccontavo i miei sogni agli amici, mi osservò a lungo, poi mi chiamò e con un gesto mi fece capire di avvicinarmi a lui.

Disse semplicemente che se volevo andare, dovevo farlo, di non aver paura, che non mi sarebbe successo nulla di grave, ma che dovevo partire e vivere un’altra esperienza.

Mi diede un braccialetto costituito da fili bianchi che legò al mio polso e semplicemente mi disse ancora una volta di partire.

La benedizione di un monaco, il suo consiglio, il benestare, la sua protezione mi dettero la sicurezza necessaria per decidere.

Speravo che il mio amico più intimo decidesse di partecipare all’avventura, ma la sua timidezza gli impedì di affrontare la nuova realtà, quella che avevamo sognato e immaginato in centinaia di serate passate insieme.

Partii il giorno successivo per la città, la più grande, la capitale. Tutto in effetti fu semplice: trovai chi mi ospitò inizialmente e presi il primo lavoro che mi venne proposto.

Successivamente trovai un posto tutto mio dove abitare, comprai una bicicletta e iniziai a progredire sia nei guadagni che nelle mie necessità. Fu un rincorrere i soldi per acchiappare quello che mi sembrava necessario, bello, importante. La corsa non lasciava spazio a nulla. Il lavoro, la ricerca del sesso, gli oggetti… questo era la mia vita. Tutto mi sembrava transitorio, in attesa del prossimo miglioramento, della nuova dimostrazione di essere arrivato, ma non avevo un arrivo, non esisteva e quindi era necessario andare sempre oltre. C’era eternamente qualcuno che invidiavo o che volevo imitare. Lavoravo oltre il consentito per divertirmi oltre i limiti, ma non sapevo se avevo un punto di arrivo o meno.

Nulla di eccezionale nel mio miglioramento, ma la bicicletta presto divenne un motorino, i jeans logori vennero sostituiti con altri più adatti a un ragazzo di città, così le T-Shirt, i giubbotti, le scarpe; anche la piccola casa necessitava di un frigo, poi un divano nuovo, la televisione e poi una più grande; così il cellulare presto sostituito con un altro e poi altro…

Tutto era nuovo, bello, eccitante, tutto era da conquistare. I miei nuovi amici condividevano con me la smania di guardare le vetrine e sognare quanto sarebbe stato bello avere quella determinata cosa e calcolare quando sarebbe stato possibile possederla.

Ammetto che mi sono anche divertito, che ho esagerato in molti momenti e situazioni, ma non riuscivo ad avere un traguardo stabile… si spostava sempre un poco più in là.

Arrivarono le feste religiose e molti amici tornarono al paesello di provenienza, alcuni approfittarono per fare un viaggio, altri semplicemente trascorsero quelle giornate in casa, in famiglia.

Io rimasi nel mio alloggio, solo. Avevo deciso di non tornare, anche se per pochi giorni, alla vita del paesello sperduto tra la giungla e il nulla. La città era la mia nuova dimensione.

Non sapevo che le mie conoscenze e amicizie erano costruite sul combattere la solitudine.

Presto mi resi conto di quanto l’isolamento in una città può essere devastante, di quanto la gente ha perso il senso della collettività, del comune, della condivisione del tempo e degli spazi.

Gli amici erano lontani o impegnati in questioni famigliari. Se parlavano al telefono o scrivevano messaggi raccontavano di se stessi e non chiedevano mai: tu come stai, cosa fai, cosa pensi? Al limite, i più umani, quelli che mi lasciavano il tempo di descrivere la mia solitudine, mi rispondevano con un: mi spiace.

Cercai il mio bongo e inizia a suonare, a cercare un ritmo. Mi resi conto che non lo avevo più suonato perché la radio, internet e il cellulare avevano sostituito la mia musica con quella delle classifiche internazionali.

La mia testa entrò in confusione: la televisione, il bel divano, i vestiti di moda, lo stesso cellulare, la moto, il mio alloggio… divennero inutili senza la possibilità di poter essere condivisi.

Mi resi conto che li avevo faticosamente conquistati non perché io li avevo davvero scelti! Ma li possedevo perché gli altri, gli amici, la pubblicità e i programmi TV ritenevano fondamentale, per un ragazzo come me, avere esattamente tutto quello.

A volte qualche amico, che voleva fuggire dalla famiglia o dalla fidanzata per qualche ora, mi cercava… capii che potevo essere un rifugio, ma sicuramente ero una seconda scelta.

Non avevo nessuno con cui condividere felicemente, serenamente, disinteressatamente tutto il mio piccolo avere, il mio essere circondato da oggetti costati fatica, sudore, giornate e mesi di lavoro logorante.

Ripresa la vita normale, sul lavoro mi accorsi di quanto fossero inutilmente arroganti i miei capi, mi resi conto che la sera, con gli amici, ognuno raccontava di se stesso.

Lacerante fu l’intuizione che ebbi davanti a una vetrina di cellulari. Gli amici iniziarono a dire le cose di sempre: con quel telefonino sarebbe cambiata la vita, la prospettiva, il tempo, le possibilità, le esperienze… e io iniziai a capire il senso del superfluo e del superficiale.

Iniziai anche a intuire che la mia casa era un riparo per i miei amici, un luogo dove poter fare tutto e il contrario di tutto, al di la della persona che li stava ospitando; infatti una sera che non stavo bene, vennero in tre o quattro e si passarono la loro serata allegra come sempre, anche se io passai tutto il tempo solo, in bagno a vomitare.

Quella sera pensai che al paesello tra la giungla e il nulla, i miei amici mai mi avrebbero lasciato solo, neppure un’ora.

Il disagio divenne palese e infatti diminuirono le uscite e le serate in compagnia. Il lavoro divenne faticoso e insostenibile a causa della sottomissione psicologica cui ero costretto.

La dissoluzione dei rapporti sociali e la contemporanea confusione mentale durarono qualche mese.

Un mattino mi telefonò dal villaggio un anziano per informarmi che alcuni monaci del paesello erano in città per una riunione e il giovane monaco avrebbe avuto piacere di incontrarmi.

Quella domenica mi vestii adeguatamente di bianco e a piedi raggiunsi il tempio. Mi sentivo ansioso di incontrarlo, avevo bisogno di risposte, di soluzioni, probabilmente lui mi avrebbe aiutato a capire.

Mi aspettava all’ingresso esterno. Mi guardò scrupolosamente e intensamente. Senza dire nulla mi portò dentro il tempio, in una stanza dove non c’era nessuno e iniziammo a recitare un mantra. Quei suoni vocali avviarono la sostituire dei pensieri. Dopo non so quanto tempo lui smise e così anche io tacqui. In silenzio tornammo all’esterno e prima di giungere all’ingresso del tempio mi fermò e disse: “Non devi più stare qui, la città non è il tuo luogo, ci vediamo tra qualche giorno al villaggio, cercami nella giungla, nello spazio sacro.”

Lo salutai e lentamente tornai verso casa. I miei pensieri si stavano ricomponendo.

Ritrovai la calma riflessiva e mi resi conto di essere confuso nel vedere le persone e gli oggetti. L’aver cambiato i pensieri mi permise di capire che nulla di ciò che mi circondava aveva senso. Non riuscivo a fare un ragionamento razionale sul mio stato o sulla situazione della mia vita, ma sentivo che tutto ciò che desideravo non era li, tra quelle mura, quella gente, quella confusione sociale.

Il giorno dopo andai al lavoro a licenziarmi. Organizzai, da un conoscente che aveva un furgone, il mio viaggio di ritorno e il trasporto al paesello di tutta la mia roba per il giorno successivo.

Tornato nella mia comunità, la prima cosa che feci fu di regalare al mio miglior amico, che non aveva avuto il coraggio di seguirmi in città, tutto quello che c’era dentro il furgone.

Gli dissi che così poteva godere, senza essere contaminato negativamente, di ciò che la città offre. Fu talmente entusiasta che pianse di gioia. Non mi chiese mai perché ero tornato; probabilmente il mio viso, le mie espressioni, gli raccontavano tutto.

Quella sera stessa tornai a suonare il mio bongo insieme e per i miei amici. Fu liberatorio, continuai finché tutti fummo stanchissimi di cantare, ballare, raccontarci, scherzare e ridere sinceramente. Continuai finché il mio amico non mi chiese di stare finalmente soli, insieme sino all’alba.

Il mattino seguente, vestito solo con un paio di pantaloncini, andai nella giungla, nel luogo sacro per i monaci. Il giovane monaco era seduto a meditare, non lo disturbai. Quando finì si volse e rimase stupito di vedermi: “Sapevo che ti avrei rivisto, ma non così in fretta. Dai vieni, andiamo sulla riva del piccolo fiume dove l’acqua scorre lenta.”

Il suo discorso iniziò solo dopo esserci sistemati su delle piccole rocce vicino all’acqua: “Le persone devono chiedersi perché sono al mondo, quale è il loro ruolo, cosa vogliono, cosa desiderano veramente. Tu hai desiderato possedere tutto ciò che vedevi. Tutto quello che gli altri avevano. Quello che faceva venire invidia. Ciò che gli amici dicevano che è bello o necessario. Ma quanto ti costava, quanto dovevi pagare questa bramosia dell’avere? Quanto tempo eri disposto a spendere della tua vita e quanto del tuo orgoglio, della tua autostima, della tua serenità, della tua indipendenza? Pensa con calma: cosa ti serve realmente per vivere? cosa è davvero importante per la tua serenità? E soprattutto cosa ti rende abbastanza vicino alla felicità?”

Non sapevo dare neppure una risposta a tutti quegli interrogativi.

Si allontanò per circa un ora e quando tornò mi disse: “Con questo filo e questo amo puoi pescare, portare a casa il cibo per la famiglia, i parenti e gli amici, avere un ruolo preciso nella comunità. Ma per pescare devi avere rispetto per ciò che ti circonda: l’acqua, il suo movimento e tutto ciò che trasporta e contiene. Anche quella è vita e quindi va rispettata, conosciuta molto bene, vedrai che ti sorprenderà.” Si alzò e tornò dentro la giungla. Da quel momento, tra noi, non c’è più stata la necessità di usare le parole.

Da quel giorno, tutte le mattine, lo saluto silenziosamente mentre lui mi sorride.

Lascio un poco di riso e delle verdure, poi proseguo verso il piccolo fiume dove l’acqua scorre lentamente.

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